Caro Claudio, stavolta le mie vicissitudini personali mi hanno impedito di visionare il tuo film non appena in mio possesso. Ma volevo vedermela con calma questa tua “Clelia”, storia di una solitudine che, se ho ben capito, dovrebbe stare in testa alle altre brevi storie di solitudine, di incontri rimandati o interrotti o troppo frettolosamente conclusi. Dodici minuti intensissimi, un piccolo omaggio alla solitudine, legata al fragile anello di un cellulare, ma che vive nel contesto della forme, degli oggetti, delle memorie quotidiane, private, casalinghe. Il tempo di restituirci un gesto ma più ancora una forma inanimata, l’angolo luminoso di un tavolino bianco, una parete con fotografie alla Wharol e, fra queste forme, la presenza di lei, resa per gesti eloquenti e usuali, talora per dettagli, protagonista nel silenzio e nel gioco delle luci e delle forme. Un simbolo – o meglio io la vedo come una metafora – l’assenza della musica, ridotta al ricorrente cigolio di quella porta, piccola violenza nel silenzio. Tutte attenzioni quasi spasmodiche al gesto e alla forma inanimata, che forse in un lungometraggio vengono travolte e inosservate ma che il tuo “corto”, pur nella sua programmata brevità, evidenzia. Ho apprezzato come sempre – e forse un po’ di più – il tuo viaggio personale e un po’ spartano in un cinema che non rinuncia ad essere sperimentale e personale. Adesso vorrei rivedermelo in sequenza questo tuo personalissimo e ambizioso viaggio verso l’incontro e, forse, verso la relativa delusione o incompiutezza dello stesso.